lunedì 18 giugno 2012

Federico Fellini


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È considerato universalmente come uno dei maggiori protagonisti della storia del cinema mondiale. Già vincitore di quattro premi Oscar per il miglior film straniero, per la sua attività da cineasta gli è stato conferito nel 1993 l’Oscar alla carriera.
Nell’arco di quasi quarant’anni – da Lo sceicco bianco del 1952 a La voce della luna del 1990 – Fellini ha “ritratto” in decine di lungometraggi una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva se stesso “un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”. Ha lasciato opere indimenticabili, graffianti, ricche di satira ma anche velate di una sottile malinconia. I titoli di tre dei suoi più celebri film, La strada, La dolce vita, e Amarcord – sono diventati dei topoi citati, in lingua originale, in tutto il mondo.
Federico Fellini nasce a Rimini da una famiglia borghese. La madre, Ida Barbiani, romana del rione Esquilino, era casalinga e il padre, Urbano, era un rappresentante di liquori, dolciumi e generi alimentari di Gambettola, cittadina situata a poco più di 20 km ad ovest di Rimini. Federico segue studi regolari, frequentando il Liceo Classico «Gambalunga» e rivela già il proprio talento nel disegno, che manifesta sotto forma di vignette e caricature di compagni e professori. Il suo disegnatore preferito era l’americano Winsor McCay, inventore del personaggio «Little Nemo». Ispirandosi al celebre personaggio, nella sua camera da letto aveva costruito con l’immaginazione un mondo inventato, in cui immaginava le storie che voleva vivere e vedere al cinema. Ai quattro montanti del suo letto aveva dato i nomi dei quattro cinema di Rimini: di lì, prima di addormentarsi, prendevano forma le sue storie immaginifiche.
Già prima di terminare la scuola, nel corso del 1938, Fellini prova delle collaborazioni con giornali e riviste. La Domenica del Corriere gli pubblica alcune vignette nella rubrica Cartoline dal pubblico, ma la collaborazione più duratura è quella che riesce a instaurare con il periodico edito da Nerbini Il 420, per cui pubblica numerose vignette e rubrichette umoristiche, sino alla fine del 1939. Agli inizi del 1939 si trasferisce a Roma con la scusa di frequentare l’Università, in realtà per seguire l’aspirazione di dedicarsi alla professione di giornalista.
Fellini giunge nella capitale seguito dalla madre Ida (che nella città ha i suoi parenti) e dai due fratelli Riccardo e Maddalena (allora piccolissima); prende alloggio in via Albalonga, fuori porta San Giovanni (nel quartiere Appio Latino). Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza.
Le prime esperienze del giovane Fellini rivelano che il suo obiettivo professionale non era tanto diventare avvocato (non sosterrà mai un esame) quanto intraprendere il lavoro di giornalista. Federico Fellini esordisce infatti, pochi mesi dopo il suo arrivo a Roma, nell’aprile del 1939, sul Marc’Aurelio, la principale rivista italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Collabora come disegnatore satirico, ideatore di numerose rubriche (tra cui È permesso…?), vignettista, e autore delle celebri “Storielle di Federico”, divenendo ben presto una firma di punta del quindicinale. Il suo principale referente in questa fase è il cartellonista e caricaturista Enrico De Seta.
Il successo al Marc’Aurelio si traduce in buoni guadagni e inaspettate offerte di lavoro. Fellini fa conoscenza con personaggi a quel tempo già noti. Inizia a scrivere copioni e gag di sua mano. Collabora ad alcuni film di Erminio Macario: Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei… lo vedi come sei? del 1939; Non me lo dire! e Il pirata sono io del 1940; scrive le battute per gli spettacoli dal vivo di Aldo Fabrizi.
Nel 1941 Fellini viene chiamato a collaborare con l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), avviando una breve ma felice stagione come autore radiofonico. Per quanto meno nota rispetto all’opera cinematografica, l’attività radiofonica di Fellini è importante poiché segna l’esordio del maestro nel mondo dello spettacolo nonché l’inizio del sodalizio artistico e affettivo con Giulietta Masina.
In questi anni Fellini firma una novantina di copioni, tra presentazioni di programmi musicali, riviste radiofoniche, fino alla celebre serie di 24 radioscene “Cico e Pallina”. Trasmessa saltuariamente all’interno del programma di varietà “Il terziglio” fra il 1942 e il 1943, la serie si incentra sulle avventure di due giovani sposi dall’animo semplice e puro. Il ruolo di Cico è di Angelo Zanobini, mentre Pallina è interpretata da una giovane attrice di rivista, Giulietta Masina, che Fellini conosce nel 1942 e che diventerà sua compagna inseparabile e indimenticata interprete. Tra l’ampia produzione radiofonica di questi anni, vanno menzionate anche le riviste scritte con Ruggero Maccari (tra cui spicca ” Vuoi sognare con me” con Paolo Poli, Riccardo Garrone, Gisella Sofio e Sandra Milo) e la toccante “Una lettera d’amore” (1942), incentrata su una giovane fanciulla analfabeta che spedisce fogli bianchi al fidanzato e che lascia presagire la poesia di personaggi cinematografici come Gelsomina e Cabiria.
Nel luglio 1943 Giulietta presenta Federico ai propri genitori. Dopo l’8 settembre 1943 Fellini, invece di rispondere alla chiamata alla leva, convola a nozze con lei (30 ottobre). Nei primi mesi di matrimonio vivono insieme nella casa della zia di Giulietta, Giulia, di famiglia benestante (i suoi congiunti possedevano a Milano il calzaturificio «Di Varese» e Giulia era vedova di Eugenio Pasqualin, preside del Liceo Tasso della capitale). La Masina e Fellini hanno di lì a poco un figlio, Pier Federico detto Federichino, nato il 22 marzo 1945 e morto appena dodici giorni dopo la nascita, il 2 aprile.
Sempre agli inizi degli anni quaranta (1941-1942) Fellini conosce Tullio Pinelli, scrittore per il teatro. In breve nasce un sodalizio professionale: Fellini elabora idee e schemi, Pinelli li dispone dentro una struttura testuale. In quegli anni Fellini e Pinelli firmano come sceneggiatori i primi grandi successi di Aldo Fabrizi, fra cui nel 1942 Avanti c’è posto… e Campo de’ fiori di Mario Bonnard. Nel 1944, in tempo di guerra, Fellini dipinge caricature ai soldati alleati in un locale in una traversa di via del Corso, via Margutta, insieme al giornalista Guglielmo Guasta ed ai pittori Carlo Ludovico Bompiani e Fernando Della Rocca.
Nel 1945 avviene il decisivo incontro con Roberto Rossellini. Fellini collabora alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, considerate le prime pellicole del Neorealismo italiano. In Paisà Fellini ricopre anche il ruolo di assistente sul set. Sembra provato che, in assenza di Rossellini, giri alcune scene di raccordo (di certo dirige una lunga inquadratura della sequenza ambientata sul Po). È il suo battesimo dietro la macchina da presa.
Negli anni successivi Fellini firma nuove sceneggiature. Nel 1948 un soggetto realizzato con Pinelli viene messo in scena: Il miracolo, uno dei due episodi de L’amore, film diretto da Roberto Rossellini. Nell’episodio Fellini è anche attore: interpreta un vagabondo che incontra e seduce un’ingenua pastorella (Anna Magnani).
Seguono sceneggiature per diversi film di Pietro Germi: In nome della legge (scritto con Pinelli, Monicelli, Germi e Mangione), Il cammino della speranza (con Germi e Pinelli), La città si difende (con Pinelli). Ancora, con Alberto Lattuada, scrive la sceneggiatura di Il delitto di Giovanni Episcopo, Senza pietà e Il mulino del Po.
Nel 1950, Fellini, debutta alla regia con Luci del varietà, che dirige con Alberto Lattuada. Oltre alla regia, i due cineasti si cimentano anche come produttori grazie ad un accordo basato su una formula di cooperativa. Il soggetto della pellicola è un tema che diventerà un topos narrativo di Fellini: il mondo dell’avanspettacolo e la sua decadenza. Sul set si respira aria ilare e distesa con Lattuada che dirige principalmente i lavori ma con un Fellini sempre presente e determinante in molte scelte. Una collaborazione alla pari che ha pochi uguali nella storia del cinema.
Nonostante il film riceva giudizi positivi da parte della critica, non riscuote gli sperati successi commerciali, piazzandosi come incasso al sessantacinquesimo posto tra i film italiani durante la stagione 1950-51. Il pessimo esito finanziario della pellicola lascia un segno pesante sui patrimoni personali di Fellini e Lattuada e ciò contribuirà a raffreddare definitivamente i rapporti tra i due.
Due anni dopo de Le luci del varietà, Fellini giunge al debutto assoluto come regista, con Lo sceicco bianco, con Antonioni come coautore del soggetto, Flaiano come coautore della sceneggiatura e una grande interpretazione di Alberto Sordi, esempio della capacità di Fellini di valorizzare gli attori più amati dal pubblico. È il momento cruciale nella carriera del Maestro, il momento in cui l’attività di regista prende il sopravvento su quella di sceneggiatore. La gestione delle riprese da parte di Fellini si realizza in una continua rivisitazione della sceneggiatura con l’arricchimento di situazioni e la dilatazione dei tempi. Questo suo modo di operare lo porterà ad alcuni contrasti con il direttore di produzione Enzo Provenzale, ma non deve fare pensare a Fellini come un regista improvvisatore e mal organizzato: in realtà dimostra idee molto chiare sul risultato da conseguire, ma anche flessibilità e disposizione a seguire nuove ed estemporanee idee.
Con questo film, Fellini inaugura – grazie anche alla collaborazione con Ennio Flaiano – uno stile nuovo, estroso, umoristico, una sorta di realismo magico, onirico, che però non viene subito apprezzato. Gli incassi al botteghino si rivelano infatti un completo insuccesso, che contribuisce al fallimento della casa di produzione di Luigi Rovere.
Anche se non mancano alcuni giudizi positivi, Callisto Cosulich lo definisce “il primo film anarchico italiano”, la maggioranza della critica lo stronca fino a definirlo “…un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative e per convenzionalità di costruzione da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello”.
Gli anni cinquanta sono caratterizzati da profondi cambiamenti nella società e in particolare nell’Italia che si avvia verso l’industrializzazione. I film di Fellini girati in questo periodo nascono proprio da questo contesto. Dopo Luci del varietà il regista gira I vitelloni, che racconta la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini. Questa volta, il film, ha un’accoglienza entusiastica. Alla Mostra del cinema di Venezia, dove viene presentato il 26 agosto 1953, l’opera conquista il Leone d’Argento. La fama di Fellini si espande per la prima volta all’estero, il film è infatti campione di incassi in Argentina e riscuote un buon successo anche in Francia, Stati Uniti e Inghilterra.
È il 1953 e il regista riminese, poco più che trentenne, fa ricorso – ed è appena al suo secondo film – a episodi e ricordi dell’adolescenza, ricchi di personaggi destinati a restare nella memoria. L’articolazione della trama del film in grandi blocchi episodici, qui per la prima volta sperimentata, sarà una consuetudine di molti suoi film successivi.
Il periodo di preparazione e lavorazione del film è particolarmente piacevole e tutto si svolge senza particolari intoppi, nonostante il budget preventivato dalla produzione sia alquanto modesto. Nonostante molte parti della sceneggiatura abbiano un carattere autobiografico, descrivendo situazioni e personaggi della sua infanzia, il regista riminese, preferisce distaccarsi dalla realtà inventando una cittadina fittizia mischiando ricordi e fantasia, come farà vent’anni più tardi con la Rimini di Amarcord.
Allo stesso anno risale la collaborazione di Fellini al film a episodi progettato da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri L’amore in città: l’episodio diretto dal regista riminese – Agenzia matrimoniale – è, secondo molti critici, il più riuscito. Durante la lavorazione di questo cortometraggio, Fellini, si avvarrà per la prima volta della collaborazione di Gianni Di Venanzo come direttore della fotografia, che poi vorrà avere per 8½ e Giulietta degli spiriti.
Il grande successo, anche a livello internazionale, arriva per Felini grazie al film La strada, girato nel 1954. L’idea del film, che porta alla scoperta da parte del regista della sua vocazione cinematografica, si ha intorno al 1952 quando Fellini è alle prese con il montaggio de Lo sceicco bianco. Per motivi strettamente legati alla produzione è però costretto a ritardare il progetto e a girare prima I vitelloni e l’episodio Agenzia matrimoniale ma in testa ha già chiaramente l’idea che lo porterà alla realizzazione del successivo capolavoro.
La scrittura del La strada avviene a partire da delle discussioni con Tullio Pinelli riguardo alle avventure di un cavaliere errante per poi focalizzarsi sull’ambiente del circo e degli zingari. Pinelli a tal proposito ricorda:
« Ogni anno, da Roma, andavo in macchina a Torino per rivedere i posti, la famiglia, i genitori. Allora l’Autostrada del Sole non c’era, si passava fra le montagne. E su uno dei passi montani ho visto Zampanò e Gelsomina, cioè un omone che tirava la carretta con un tendone su cui era dipinta una sirena e dietro c’era una donnina che spingeva il tutto. …. Così quando sono tornato a Roma ho detto a Federico: “Ho avuto un’idea per un film”. E lui: “Ne ho avuta una anch’io”. Stranamente erano idee molto simili, anche lui aveva pensato ai vagabondi, ma la sua era centrata soprattutto sui piccoli circhi di allora… Abbiamo unito le due idee e ne abbiamo ricavato un film » (Tullio Pinelli)
Dopo il successo de La strada sono molti i produttori che si contendono il prossimo film del regista, ma dopo aver letto il soggetto de Il bidone molti si tirano indietro. L’unico che accetta di produrlo è Goffredo Lombardo della Titanus.
L’idea per questa sceneggiatura viene a Fellini dai racconti di un gabbamondo incontrato in una trattoria di Ovindoli durante la lavorazione de La strada. Dopo averne discusso con i collaboratori Pinelli e Flaiano, si cerca l’attore protagonista. Dopo aver scartato molti nomi viene scelto Broderick Crawford, che verrà affiancato da Richard Basehart (il “Matto” de La strada), Franco Fabrizi e Giulietta Masina.
Durante la lavorazione, Fellini appare però distaccato dal film, non sente più né il divertimento de I vitelloni né il sapore della sfida de La strada. Il risultato finale appare alla critica e al pubblico modesto. La “prima” avviene il 9 settembre 1955 a Venezia dopo essere stati costretti ad un lavoro di montaggio a tempi di record. La gelida accoglienza avuta alla mostra di Venezia porterà il regista a decidere di non mandare più al Lido nessuno dei suoi lavori, fino a quando presenterà, fuori concorso, Fellini Satyricon nel 1969. Gli incassi sono piuttosto deludenti e anche la distribuzione all’estero non porta i risultati sperati. Alcune delle critiche più ostili parlano di “Un passo falso” o “Non funziona, ma non è trascurabile”.
Il successo torna però con il film successivo, Le notti di Cabiria, a cui fa seguito anche il secondo Oscar. Anche in questo caso, protagonista è Giulietta Masina, sempre molto presente nei primi film del regista riminese. Il film conclude il trittico ambientato nel mondo degli umili e degli emarginati.
Negli anni Sessanta la vena creativa di Fellini si esprime con tutte le sue energie, rivoluzionando i canoni estetici del cinema. Appaiono in questo decennio i film più sconvolgenti del regista.
Nel 1960 esce La dolce vita: definita dallo stesso Fellini un film «picassiano» (“comporre una statua per romperla a martellate”, aveva dichiarato), la pellicola – che abbandonava gli schemi narrativi tradizionali – destò scalpore e polemiche perché, oltre a illustrare situazioni fortemente erotiche, descriveva con piglio graffiante una certa decadenza morale che strideva con il benessere economico ormai acquisito dalla società italiana.
Il produttore iniziale de La dolce vita fu Dino De Laurentiis, che aveva anticipato 70 milioni di lire.Tra il produttore e Fellini avvenne però una rottura e il regista dovette cercare un altro produttore che ripagasse anche l’anticipo di De Laurentiis.Dopo varie trattative con diversi produttori, il duo Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato divennero i nuovi produttori della pellicola.
Il rapporto tra Fellini e Rizzoli è tranquillo e gli incontri fra i due sono cordiali. Il budget viene sforato, anche se di poco: Kezich riporta che secondo fonti ufficiali il film non costò più di 540 milioni, che non era una cifra esagerata per una produzione impegnativa come quella de La dolce vita.
Interprete del film, insieme a Marcello Mastroianni, un’”attrice venuta dal freddo”, la svedese Anita Ekberg, che sarebbe rimasta – con la scena del bagno nella Fontana di Trevi – nella memoria collettiva: la Ekberg sarà ancora con Fellini nel 1962 in un episodio di Boccaccio ’70, Le tentazioni del dottor Antonio, assieme ad un esilarante Peppino De Filippo. Il film fu premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes.
Terminati i lavori per le tentazioni del dott. Antonio, Fellini vive un periodo di scarsa ispirazione. In realtà nella sua testa comincia già a girare l’idea di un nuovo film, ma non con un’idea precisa, piuttosto un accumulo di idee vaghe che tentano di mescolarsi tra di loro
Dopo aver trascorso un periodo di riposo presso Chianciano Terme, fa ritorno a Roma con uno spunto per una sceneggiatura: un uomo di mezza età interrompe la sua vita per una cura termale e qui, immerso in un limbo, affronta visite e ricordi. La scelta del protagonista cade quasi subito sull’amico Marcello Mastroianni. Tra i due l’amicizia è reale e intensa tanto che Fellini finirà per identificare nell’attore il suo alter ego cinematografico.
Trovato così il protagonista tutto sembra pronto per iniziare ma sorge un problema di cui Fellini non ha parlato a nessuno: il film non c’è più, l’idea che aveva in testa è sparita. In seguito racconterà che più passavano i giorni più gli sembrava di dimenticarsi il film che voleva fare. Quando è ormai deciso a scrivere una lettera per comunicare la disfatta al produttore Angelo Rizzoli, Fellini viene interrotto da un capo macchina di Cinecittà che lo chiama per festeggiare il compleanno di un macchinista. Tra i festeggiamenti gli arrivano gli auguri per il nuovo film, che ormai non c’è più, ma una volta seduto su una panchina arriva il lampo di genio: il film parlerà proprio di questo, di un regista che voleva fare un film ma non si ricorda più quale, cosicché il protagonista, Guido Anselmi, diventa la proiezione di Fellini stesso.
Il film, girato nel 1963, prende il titolo di 8½, poiché questa pellicola viene dopo sette suoi film più un “mezzo” (cioè l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio), e in seguito si rivelerà uno dei capolavori, forse il più importante di tutti, del regista. Premiato con un premio Oscar (assieme a quello di Piero Gherardi per i costumi), il film viene ancor oggi considerato uno dei più grandi della storia del cinema, tanto da essere stato inserito dalla prestigiosa rivista inglese Sight & Sound al 9º posto nella graduatoria delle più belle pellicole mai realizzate e al 3º nella classifica stilata dai registi.
In Giulietta degli spiriti, ancora con la Masina (1965), Fellini adotta per la prima volta il colore, in funzione espressionistica (il suo primo lavoro a colori rimane comunque Le tentazioni del dottor Antonio).
Il periodo di lavorazione del film è caratterizzato anche da un aumento di interesse, da parte di Fellini, sul soprannaturale. Frequenta molti maghi e veggenti ed in particolare Gustavo Adolfo Rol, pittore, dirigente bancario e sensitivo di grande fama[33]. Di questo periodo anche l’esperimento con l’LSD, a scopo terapeutico come proposto dal suo psicoanalista Emilio Servadio.
L’accoglienza della critica di Giulietta degli spiriti fu piuttosto tiepida e non nascose una certa delusione. Le critiche più negative si espressero con i termini di velleitario, fasullo, ipertrofico, inadeguato…. Ma non mancarono alcuni elogi e qualcuno, seppur in un piccola minoranza, parlò anche di capolavoro. Il giudizio più spietato proviene dal Centro Cattolico Cinematografico che lo accusa di uno “sgradevole impasto che si fa del sacro e del profano”. L’insoddisfazione per i risultati non certo simili alle aspettative andrà anche a creare una incrinatura del rapporto tra il regista e Ennio Flaiano.
Il film successivo, Il Viaggio di G. Mastorna, già in cantiere, non viene realizzato. Fellini, quarantacinquenne, deve pagare pesanti penali. Si riprende prontamente alla fine del decennio. La fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta sono anni di intenso lavoro creativo.
Tornato sul set, dopo aver rinnovato completamente la squadra tecnica e artistica intorno a sé, gira nel 1968 un episodio del film Tre passi nel delirio, l’anno seguente realizza un documentario per la televisione (Block-notes di un regista), cui segue il film Fellini Satyricon (1969). È di nuovo grande successo, i problemi degli anni precedenti sono definitivamente alle spalle.
La produzione successiva di Fellini segue ancora un ritmo ternario: I clowns (girato per la TV, 1970), Roma (1972) e Amarcord (1973) tutti incentrati sul tema della memoria. L’autore cerca le origini della propria poetica esplorando le tre città dell’anima: il Circo, la Capitale e Rimini. Il film conclusivo della terna, Amarcord («mi ricordo» in dialetto romagnolo) vince l’Oscar, il quarto per il regista riminese. La notizia della vittoria gli arriva nelle prime ore del 9 aprile 1975, mentre è impegnato su set de Il Casanova. Fellini decide di non andare a ritirare il riconoscimento che verrà consegnato al produttore.
In particolare in Amarcord si trovano molti spunti autobiografici: infatti possiamo riconoscere in Moraldo, il giovane che alla fine del film abbandona il paese natale per andare a vivere in una grande città, il giovane Fellini, che abbandona Rimini verso Roma. Nonostante ciò, il regista, rifiuta di riconoscere nella pellicola qualsiasi riferimento alla propria vita e infanzia asserendo che tutto è frutto della sua immaginazione. Come già nei Vitelloni non c’è una sola scena che sia girata nei pressi della cittadina adriatica.
Dopo Casanova del 1976, considerato da molti come il momento più alto del talento visionario di Fellini regista, sarà il turno di Prova d’orchestra (1979), considerato il suo film più “politico” e maturato durante i cosiddetti anni di piombo e La città delle donne (del 1980). Quest’ultimo viene accolto dalla critica con rispetto, lo si descrive come “tipicamente felliniano”, “catalogo di evoluzioni registiche”, “gioco con alcuni vuoti”. Presentato fuori concorso al XXXIII Festival di Cannes, riceve invece una critica alquanto negativa.
L’ultimo decennio di attività di Fellini sarà arricchito dagli ultimi capolavori: E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), Intervista (1987), e il lavoro dell’addio al cinema: La voce della luna (1990), da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Quest’ultimo film gli darà la possibilità di avere come protagonisti Paolo Villaggio e Roberto Benigni.
Nel 1992, dopo un periodo di inattività, ritorna dietro alla cinempresa per dirigere 3 brevi spot pubblicitari, intitolati Il sogno, per conto della Banca di Roma. In quest’occasione tornerà a lavorare con Paolo Villaggio.
Nel 1993 ricevette dall’Accademia delle arti e scienze cinematografiche americana il suo ultimo Oscar, il più importante, quello alla carriera. Fellini morì il 31 ottobre dello stesso anno presso il Policlinico Umberto I di Roma, dove era ricoverato per un nuovo ictus, dopo quello che lo aveva già colpito nell’Agosto precedente, mentre era convalescente nella sua Rimini. Tali complicanze trombo-ischemiche si verificarono dopo l’intervento subito dal grande regista in Svizzera nel mese di Giugno per ridurre un aneurisma della aorta addominale. Il pomeriggio del 18 ottobre, a causa della disfagia indottagli dai pregressi ictus, un frammento di cibo (mozzarella, per l’esattezza) gli ostruì la trachea causandogli danni irreparabili al cervello per via della conseguente ipossia. Il 30 ottobre avrebbe dovuto celebrare le sue nozze d’oro con la moglie Giulietta Masina.
Furono celebrati i funerali di stato dal cardinale Achille Silvestrini nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma in Piazza della Repubblica. Alla domanda di Giulietta Masina, il trombettista Mauro Maur esegui l’”Improvviso dell’Angelo” di Nino Rota. Commovente l’ultimo saluto che gli diede la moglie; un “arrivederci a presto” che li avrebbe riuniti pochi mesi dopo (la Masina infatti morì cinque mesi dopo il marito).
Le sue spoglie riposano accanto alla moglie e a quelle del figlio Federichino, morto poco dopo la nascita, nel cimitero di Rimini: sovrasta il luogo dell’inumazione una scultura di Arnaldo Pomodoro dal titolo Le Vele, ispirata al film E la nave va.
A Fellini è intitolato l’Aeroporto Internazionale di Rimini. Il logo dell’aerostazione riporta la caricatura del Maestro, di profilo, con cappello nero e sciarpa rossa. È stato disegnato da Ettore Scola ed è oggi il logo della “Fondazione Fellini”, con sede a Rimini.
Dopo la sua morte, tutte le strade che sboccano sul lungomare riminese sono state ribattezzate con i nomi dei suoi film e “ornate” da cartelli con le relative locandine e descrizioni.
Sono numerosi i soggetti che Fellini pensò di trasformare in film ma che rimasero sulla carta o, addirittura, solo nella sua immaginazione.
Il più famoso di questi è Il viaggio di G. Mastorna, una compiuta sceneggiatura felliniana, cui collaborò anche Dino Buzzati. Nel 1966 iniziarono le riprese nella campagna attigua a Cinecittà, vennero girate alcune scene ma per tormentate vicende il film non giunse mai più alla sua conclusione. Rimane celebre la definizione che diede Vincenzo Mollica de Il viaggio di G. Mastorna: «il film non realizzato più famoso del mondo».
Viaggio a Tulun è un soggetto/sceneggiatura di Federico Fellini e Tullio Pinelli che non divenne un film bensì un fumetto. Sul finire del 1985 Federico Fellini compie un viaggio in Messico per visitare i luoghi raccontati negli scritti dello scrittore-antropologo-sciamano Carlos Castaneda. Accompagna il regista in questo viaggio lo scrittore Andrea De Carlo. L’esperienza risulta per entrambi inquietante ma creativamente produttiva. Lo scrittore infatti ne ricaverà un romanzo breve, Yucatan, Fellini lo spunto per un film che non farà mai. Le versioni dei due autori confermano un viaggio carico di presagi e di inspiegabili episodi fra il grottesco e il sovrannaturale. Il regista si libererà del peso di quelle sensazioni in un soggetto-sceneggiatura scritto con la collaborazione di Tullio Pinelli cui darà il nome di Viaggio a Tulun, storpiando, come sua abitudine, il vero nome del sito maya: Tulum. Il lavoro viene pubblicato in sei puntate sul Corriere della Sera, nel mese di maggio del 1986.
Federico Fellini fu lui stesso un disegnatore professionista e sino al 1948 accompagnò la sua attività di sceneggiatore a quella di vignettista. Da regista, disegnava abitualmente le scene dei suoi film. Collaboravano allo sviluppo dello storyboard, così come all’ideazione dei tipi e delle situazioni, l’artista surrealista Roland Topor e il pittore australiano Albert Ceen, uno degli animatori della “dolce vita”.
Quando la sua attività di regista si fece più rada ideò, per i disegni di Milo Manara, anche a due fumetti: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet. Viaggio a Tulum nasce da una sceneggiatura quasi omonima, Viaggio a Tulun, scritta da Fellini a seguito di un inquietante viaggio in Messico. Il fumetto sarà pubblicato, a partire dal 1989, sulla rivista a fumetti Corto Maltese. Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet nasce da una compiuta sceneggiatura felliniana e vede la luce nel 1992 sulle pagine della rivista Il Grifo.
Cronologia dei riconoscimenti
* Nomination al Premio Oscar 1947 alla miglior sceneggiatura originale per Roma città aperta (con Sergio Amidei)
* Nomination al Premio Oscar 1950 alla miglior sceneggiatura originale per Paisà (con Alfred Hayes, Sergio Amidei, Marcello Pagliero e Roberto Rossellini)
* Nastro d’Argento al miglior regista 1954 per I vitelloni
* Nastro d’Argento al miglior regista 1955 per La strada
* Nomination al Premio Oscar 1957 alla Miglior Sceneggiatura Originale per La strada
* David di Donatello 1957 per il miglior regista per Le notti di Cabiria
* Nastro d’Argento al miglior regista 1958 per Le notti di Cabiria
* Nomination al Premio Oscar 1958 alla miglior sceneggiatura originale per I vitelloni (con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli)
* David di Donatello 1960 per il miglior regista per La dolce vita
* Nastro d’Argento 1961 al Miglior Soggetto Originale per La dolce vita con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli
* Nomination al Premio Oscar 1962 al miglior regista per La dolce vita
* Nomination al Premio Oscar 1962 alla miglior sceneggiatura originale per La dolce vita (con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi e Pier Paolo Pasolini – non accreditato)
* Nomination al Premio Oscar 1964 al miglior regista per 8½
* Nomination al Premio Oscar 1964 alla miglior sceneggiatura originale per 8½ (con Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi)
* Nastro d’Argento al miglior regista 1964 per 8½
* Nastro d’Argento 1964 al miglior soggetto originale per 8½ con (Ennio Flaiano e Tullio Pinelli)
* Nastro d’Argento 1964 alla migliore sceneggiatura originale per 8½ con (Ennio Flaiano e Tullio Pinelli)
* Nomination al Premio Oscar 1971 al miglior regista per Fellini Satyricon
* Gran Premio della tecnica al Festival di Cannes 1972 per Roma
* Premio della critica SFCC (Le Syndicat Français de la Critique de Cinéma) per il miglior film straniero per Roma
* David di Donatello 1974 per il miglior regista per Amarcord
* Nastro d’Argento al miglior regista 1974 per Amarcord
* Nastro d’Argento per il Miglior Soggetto Originale 1974 per Amarcord (con Tonino Guerra)
* Nastro d’Argento per la Migliore Sceneggiatura Originale 1974 per Amarcord (con Tonino Guerra)
* Nomination al Premio Oscar 1975 alla miglior sceneggiatura originale per Amarcord (con Tonino Guerra)
* Premio Kinema Jumpo (Tokyo) per la regia del miglior film straniero per Amarcord
* Nomination al Premio Oscar 1977 alla miglior sceneggiatura non originale per Il Casanova di Federico Fellini (con Bernadino Zapponi)
* Premio BAFTA per la miglior Scenografia per Il Casanova di Federico Fellini (con Danilo Donati)
* Nastro d’Argento al miglior regista 1980 per La città delle donne
* Nastro d’Argento al miglior regista 1984 per E la nave va
* Premio David “René Clair” ai David di Donatello 1986 per Ginger e Fred
* Premio Oscar 1993 alla carriera



lunedì 6 settembre 2010

Monet

Istanti in fuga dal passato
racchiusi in quadri confusi
si spingono oltre la vita
Si rincorrono dietro le nuvole
e risalgono in superficie
staccandosi dal fondo
dove tra rosse stelle di coralli e conchiglie
scavano sogni di polvere e sale
Monet
The Highway Bridge at Argenteuil 






 Femme à l' ombrelle

Scrorre il tempo
con i suoi schizzi d'argento tra i capelli
mentre mani si stringono
per dirsi
per amarsi
Profumi d'autunno
nel fragore del vento
scuotono foglie fragili
anime solitarie soffiate via
come per incanto
E in questo cerchio
di emozioni
dolci affetti
di spiriti affini
colmi di antichi presagi
racchiudo nel cuore
 
Raggiungerei le stelle
Afferrandole ad una ad una
Per poi riporle tra le tue mani
Ti donerei il mio cuore
Attraverso mura di cemento
E torri di cristallo
Facendolo vibrare
Con la dolcezza di una nota
Oltre i confini della pelle
Ti starei accanto
Con cento nomi
E mille sogni
Perche' un giorno
Tu possa chiamarmi
Tuo unico amore

Notte stellata

Vincent Van Gogh

giovedì 22 luglio 2010

Maurice de Vlaminck









Maurice de Vlaminck (Parigi, 4 aprile 1876 – Rueil-la-Gadelière, 10 ottobre 1958) è stato un pittore francese.

Vlaminck fu un fiero autodidatta: la sua arte vuole essere libera e immediata, senza interpretazioni filosofiche o letterarie; anche se in un primo tempo si ispirò all’impressionismo, in breve tempo se ne allontanò e guardò con interesse ai colori forti e puri di André Derain e Henri Matisse.
Nelle sue prime opere i colori sono accesi e gli elementi del paesaggio sono semplificati in linee contrastate, che danno un grande senso del ritmo e del movimento con poca grazia e molto dinamismo: le pennellate non comunicano armonia, ma forza ed energia.
Su consiglio di Henri Matisse, presentò al pubblico i suoi primi dipinti al Salon des Indépendants, poi nel 1905 partecipò al Salon d’Automne e i critici lo inserirono a pieno diritto nel gruppo dei fauves: per il suo stile decisamente aggressivo e per l’uso di colori puri, talvolta spremuti direttamente dal tubetto sulla tela, si affermò come l’esponente più radicale del gruppo.

L’unione dei fauves fu fragile e breve: dopo il 1907 il gruppo si sciolse e ogni artista intraprese un percorso autonomo.
Anche Vlaminck mostrò una pittura diversa da quella degli anni precedenti: dopo aver conosciuto l’opera di Paul Cézanne, la sua pittura si compone di paesaggi e di nature morte dai colori meno accesi e da un cromatismo drammaticamente espressivo.
I contorni sono meno marcati, le pennellate sono meno nervose, il disegno è semplificato, le linee curve si affiancano a quelle rette dando un maggior senso di profondità e d’armonia.
L’avvicinamento all’espressionismo.

Attorno al 1910 Vlaminck rimase colpito sia dal cubismo, che lo portò verso forme piene e più costruite, che dall’espressionismo.
L’avvicinamento all’espressionismo fu comune anche ad altri fauves: i punti di contatto tra i pittori fauves e gli espressionisti erano molti, la loro evoluzione fu quasi parallela con reciproche influenze, pur nella diversità di carattere e di sensibilità dei singoli artisti.
Entrambi questi movimenti superarono definitivamente l’impressionismo: mentre per gli impressionisti la visione della natura è sostanzialmente serena e priva di problematiche o angosce interiori, i colori forti e le tinte ora accese ora cupe dei fauves e degli espressionisti sono il segno evidente di uno stato d’animo perturbato alla ricerca di una propria identità.
Ci fu un cambiamento simile anche in letteratura, dove si passò dal naturalismo, vicino al positivismo, al decadentismo, legato all’esistenzialismo.

Dopo la prima guerra mondiale, Vlaminck lasciò Parigi e andò a vivere in campagna, a Rueil-la-Gadelière, dove rimase fino alla morte.
Nelle opere di questo periodo è rintracciabile il segno profondo che l’esperienza della guerra ha avuto sulla sua visione artistica.
I suoi paesaggi acquistano una nuova fisionomia grazie all’influenza sempre maggiore dell’espressionismo, la tavolozza si fa più cupa e le atmosfere più inquietanti e drammatiche.
Le opere di questo periodo sono caratterizzate da strade di paese silenziose e deserte, che si perdono verso l’orizzonte in una ritrovata profondità prospettica.
La natura diventa una presenza minacciosa e ostile, simbolo di una visione drammatica dell’esistenza; anche il cielo è dipinto con colori freddi ed è quasi sempre pieno di nuvole che preannunciano la pioggia.
Le pennellate, che nelle opere del periodo fauves erano brillanti e agili, sembrano trascinate a fatica sulla tela e danno l’idea di un forte pessimismo esistenziale.

Vlaminck morì il 10 ottobre 1958 a Rueil-la-Gadelière.



Giacomo Balla




Giacomo Balla nasce a Torino nel 1871; studia violino e comincia molto presto a disegnare e a dipingere. Intorno al 1891 frequenta per alcuni mesi l'Accademia Albertina. Al 1894 risale il primo dipinto conosciuto, un autoritratto. Nel 1895 si trasferisce a Roma con la madre, dopo una breve parentesi parigina.Nella capitale inizia a esporre regolarmente nell'ambito mostre degli "Amatori e Scultori".

E' maestro di Gino Severini e Umberto Boccioni e diviene figura guida nell'ambiente artistico romano. La sua pittura è inizialmente caratterizzata da una forte ispirazione sociale e da una tecnica divisionista.

Nel 1910, quando aderisce al futurismo sottoscrivendo il "Manifesto dei pittori futuristi", ha già una vasta notorietà. Nel 1913 mette all'asta tutte le sue opere figurative e annuncia: "Balla è morto. Qui si vendono le opere del fu Balla". Nel 1915 firma il manifesto della "Ricostruzione futurista dell'universo".

Si afferma come il capofila del futurismo romano influenzando dopo il '20 la seconda ondata del movimento. Negli anni '20 il suo lavoro è caratterizzato da una fantasiosa stilizzazione di motivi naturalistici, da un cromatismo intenso e violento, sfumato e iridescente.

Nel 1918 si ha una sua personale a Roma per inaugurare l'attività della Casa d'Arte Bragaglia. Nel 1928 espone agli "Amatori e Cultori" con una personale in cui emergono i segni di un rinnovato interesse per la figurazione.

Da questo momento si rivolge sempre più ai temi della vita quotidiana, al ritratto, al paesaggio, che furono quelli della sua formazione. Tempio di questa ricerca è la casa-studio di via Oslavia, dove lavora con le due figlie pittrici, Elica e Luce. Muore nel 1958 a Roma.